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Storia e Storie

La Pergamena in Bianco di Cava de' Tirreni: la vera ragione della sua ricezione

Inserito da (redazioneip), venerdì 10 marzo 2017 10:20:08

di Livio Trapanese

La pergamena in bianco, custodita nel Palazzo di Città di Cava de' Tirreni, concessa dal Re Ferrante I d'Aragona, Sovrano del Regno di Napoli, è stata posta in relazione al mai avvenuto spontaneo sottocorso reso al sovrano aragonese, quando questi era al comando delle milizie aragonesi e quelle angioine guidate da Giovanni d'Angiò, pretendente al trono di Napoli.

La pergamena in bianco, piaccia o no, dobbiamo ammettere che venne concessa alla Città di Cava per una sola e reale ragione: l'essere rimasti "fedeli" alla Casa aragonese, ovvero a Re Ferrante, sebbene i distruttivi "guasti" (devastazioni) arrecatici dagli angioini dal 20 al 28 Agosto 1460, con l'appoggio di Felice Orsini, principe di Salerno.

Anche noi fino al 2009 eravamo certi dello spontaneo soccorso cavoto a Ferrante nella battaglia di Sarno, ma poiché la storia si costruisce con i documenti e non con le leggende, favole o scritti apocrifi, con non poca amarezza, abbiamo dovuto accettare tale rivoluzionaria realtà.

Ricordiamo che Cava, quale "Città Demaniale", cioè infeudabile e alle dirette dipendenze della Casa regnante, privilegio concessoci il 10 Luglio 1432 dalla Regina Giovanna II d'Angiò Durazzo, unitamente a Castellammare, Vico, Massa, Gaeta, Aversa e Acerra non appoggiò i baroni del regno di Napoli nella congiura contro Ferrante.

Nel 1640, per la prima volta e dopo 180 anni dalla citata battaglia, nel libro: Breve descrizione del Regno di Napoli, pubblicata da Ottavio Beltrano, apparve la ingannatrice versione, consistente nell'improvviso soccorso a Re Ferrante da parte di 500 militi cavoti.

Dopo 215 anni dall'indicata contesa, ovvero nel 1675, nel volume III della raccolta di "Lettere memorabili", il genovese Michele Giustiniani pubblicò un'apocrifa lettera datata 31 Luglio 1460, fornitagli dal cavese Giovanni Canale, nella quale Ferrante ringraziava i cavoti per avergli, col loro spontaneo intervento (peraltro non descritto) salvata la vita ed il trono.

L'appena citata fallace notizia, datata 1546, è menzionata anche nella descrizione marmorea del monumentino posto sulla strada che dal Borgo di Cava de' Tirreni mena alla collinare Dupino, nella quale si ricorda che detta Frazione fu la "patria" di Messere Onofrio Scannapieco, Sindaco universale della Città di Cava, il quale: "presso Sarno strappò Ferrante I dalle mani dei nemici".

È proprio il Professore di storia medioevale Francesco Senatore a sincerarci che i caratteri esterni dell'iscrizione marmorea non sono certamente del 1546, poiché le lettere scolpite sono, con tutta evidenza, da datare all'ottocento.

La lettera del 31 Luglio 1460, essendo in copia e mai elencata e conservata fra i privilegi cavoti, oltre a non essere mai più pubblicata dal Beltrano dopo il 1640, non è analizzabile, sottolineando, come ci dice il Professore Senatore, che il falsario ha ecceduto nell'aver usato forme tipicamente napoletane, tradendosi quando usa la formula di saluto:"vi salutiamo in genere ed in specie", come dire vi salutiamo nelle totalità, ovvero uno per uno, assolutamente fuori luogo per un sovrano quando scriveva una missiva alla sua gente, sarebbe come se oggi la lettera concludesse con: ciao a tutti, vi voglio tanto bene.

Della battaglia di Sarno, dal 7 al 23 Luglio 1460, risultano scritte 15 lettere da chi aveva partecipato alla contesa e in nessuna di queste si fa cenno all'intervento cavoto. Neanche lo stesso Ferrante, come Antonio da Trezzo, ambasciatore del Duca Francesco Sforza di Milano, l'aragonese Giovanni Pontano e l'angioino Giovanni de Candida hanno mai scritto dei 500 cavoti a Sarno.

La Professoressa Maria Luisa Squitieri, a conclusione di una certosina ricerca, ha ricostruito le fasi della contesa fra aragonesi ed angioini a Sarno, concludendo che fu proprio la cavalleria di Ferrante, contrastata dagli angioini, a sbaragliare e travolgere la fanteria aragonese, tanto da darla vinta all'Angiò; la via di fuga verso Nola al giovane Ferrante fu mostrata da Guglielmo di San Marco e Giovanni Catino ai quali fu concessa una ricompensa, come attestato dalla tesoreria reale.

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