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Cronaca

Omicidio Avagliano, due ergastoli

Inserito da (admin), lunedì 20 giugno 2005 00:00:00

Per evitare di essere accusati dell'uccisione di un boss avversario, all'epoca "dominus" sulla città di Pagani, il "pentito" Mario Pepe dirottò abilmente le indagini degli investigatori. Si inventò la soffiata della moglie di un pregiudicato che era infermiera nell'ospedale dove fu giustiziato il boss paganese, pur di evitare l'addebito dell'omicidio al suo gruppo. Alfonso Avagliano, marito dell'infermiera, fu ucciso tre mesi dopo l'omicidio di Peppe Saccone. Dopo 15 anni, ed in seguito ad una prima archiviazione e conseguente apertura del processo, si arriva alla verità processuale con la condanna a due ergastoli per il mandante e l'esecutore dell'omicidio di Alfonso Avagliano. Due assoluzioni per i presunti basisti dell'omicidio avvenuto nel settembre di 15 anni fa a Cava de'Tirreni. La Corte di Assise di Salerno (presidente Frega) ha emesso la sentenza su uno dei fatti di sangue più gravi avvenuti negli anni di piombo della guerra di camorra salernitana. Dopo l'archiviazione delle indagini in prima battuta, furono poi i pentiti a far riaprire il processo. L'omicidio Avagliano, secondo l'accusa, era maturato come ritorsione all'omicidio di Giuseppe Olivieri, compiuto nel giugno del '90 nell'ospedale di Cava de'Tirreni. Secondo i collaboratori di giustizia, l'individuazione di Olivieri nell'ospedale di Cava fu compiuta dai sicari in seguito alla soffiata che la moglie di Alfonso Avagliano, infermiere all'interno dell'ospedale, diede al marito ed agli altri complici. Ma anche sulle parole dei collaboratori di giustizia, dopo gli approfondimenti del dibattimento, si sono avuti i riscontri negativi. Uno dei essi è particolarmente eclatante. Riguarda un presunto basista, il meccanico Pietro Salsano, accusato di aver fornito appoggio al commando della camorra, mettendo a disposizione la propria officina come base logistica. Salsano, difeso dagli avvocati Siniscalchi, Balice e Dalia, è stato poi assolto. Era finito nel processo perché in quei giorni aveva in riparazione, presso la propria officina, una Fiat 500. Era stato coinvolto nell'indagine perché la moglie di Alfonso Avagliano dichiarò di «aver sentito il rumore di una 500 o di una 126 che si allontanava dopo gli spari». Si sarebbe trattato proprio della 500 all'epoca dei fatti in riparazione presso l'officina dell'imputato Salsano. Un elemento, questo, riportato ripetutamente nelle dichiarazioni dei pentiti, anche se non sapevano specificare il contributo realmente fornito dal meccanico. Il pm Cassaniello ha chiesto l'ergastolo per tutti gli imputati. Le difese di Bisogno (avv. De Concilio), Lamberti (avv. Falci), De Martino (avv. Pecoraro) e Salsano hanno fornito ricostruzioni alternative. In particolare, la difesa del meccanico ha puntato l'attenzione «sull'ambigua contaminazione tra gli investigatori ed i collaboratori di giustizia allora confidenti della Polizia». «Il coinvolgimento del meccanico - dichiara l'avv. Vincenzo Siniscalchi - appariva più il frutto della circolazione perversa del nome e cognome che la descrizione di un contributo fattivo all'operazione». La Corte di Assise, dopo sei ore di camera di consiglio, ha condannato all'ergastolo Bisogno e Lamberti, assolvendo Salsano e De Martino. «La ricostruzione fornita dai collaboratori di giustizia, anche in seguito al serrato controesame, è risultata parzialmente minata da una serie di contaminazioni con l'ambiente investigativo, tale da far sorgere il dubbio circa la genuinità e l'autenticità della provenienza della fonte di informazione».
Il grande vecchio ed i suoi "piccirilli"
Il grande vecchio: così è conosciuto a Cava Mario Bisogno, capo dell'omonimo clan camorristico, terrore dei commercianti della zona. La grande famiglia dedita al racket ed al riciclaggio del denaro sporco. Dalla sua abitazione, in via Vittorio Veneto, Mario controllava i "piccirilli" del clan. 43 affiliati, condannati con lui in diversi processi che lo vedono imputato con l'accusa di associazione a delinquere per fini camorristici.

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